Sull'infinita cresta Ovest del Monte Corvo.


Raccontare di una escursione al Monte Corvo non è per me cosa facile, non volevo farlo e forse non dovevo; troppo a lungo è stato sopito il desiderio di questa montagna ed ora sarà difficile riuscire a rimanere emotivamente distaccato nel parlare di questa giornata. Monte Corvo, finalmente il Monte Corvo, una attesa che durava da cinque anni, una attesa che è passata attraverso varie vicissitudini, che ha prodotto, legato, crinato, vincoli d’amicizia, che ha prodotto suggestioni ed emozioni, fino ad attribuire a questa montagna una sorta di epica connotazione. Ci volevano i nuovi, gli ultimi ormai vecchi fedelissimi di Aria Sottile per far diventare questa idea un progetto, Tommaso e Augusto in particolare; le loro spinte emotive, legate agli ultimi grandi successi del gruppo, non lasciavano scampo. Tante escursioni del dopo estate ci hanno mostrato il Monte Corvo da molte prospettive, la sua mole ha “corrotto” e distratto le escursioni sulla Laghetta e quella alla vetta orientale del Gran Sasso e troppe volte è stato oggetto di nemmeno tante velate aspettative da parte di molti così che non poteva più rimanere il progetto insoluto per un altro anno, il sogno di salire fin lassù si doveva realizzare prima dell’inverno. Con un mese di anticipo è stata scelta la data, quella del primo Ottobre; un caldo prolungamento dell’estate ha fatto il resto regalandoci per l’occasione la giornata perfetta. Il piano era di inoltrarci nella Val Chiarino e salire lo spigolo ovest del Corvo, percorrere la cresta sommitale fino a scendere sulla omonima sella sotto il Venaquaro per poi far ritorno di nuovo per la stessa valle. Lo schema è il solito; un intensificarsi di messaggi sul forum sempre più frequentato via via che la fatidica data si avvicinava ha formato le adesioni più che mai numerose in perfetto stile Aria Sottile; qualche disdetta dell’ultimo momento ci ha fatto privare di pezzi della nostra storia, compensate, anche in questa occasione, da un paio di nuovi e graditi ingressi: Annamaria e Maurizio. Il resto delle brigata vede coinvolti Luca e suo padre Giacomo, Trechiodi che non è voluto mancare ad ogni costo nonostante non fosse proprio in forma, Augusto che aveva rinunciato ad ogni altra escursione puntando tutto su questa, Marco ormai carismatica presenza di ogni escursione, il suo amico Marco già stato dei nostri sulla Maiella alla conquista del Monte Amaro, Filippo, il mitico Solitarywolf che avevo finalmente il piacere di conoscere e l’affiatatissima coppia formata da Tommaso e Fernando. L’alba non ha ancora vinto la sua ricorrente battaglia con la notte quando muoviamo i primi passi attraversando la diga del Lago della Provvidenza; solo i contorni del bosco, delle montagne, sono definiti nel chiarore del cielo che si sta preannunciando limpido, tutto il resto è un confuso paesaggio dai dettagli ormai quasi autunnali che si confondono come in un quadro astratto; anche le placide acque del lago sono un plumbeo specchio che trattengono gli ultimi attimi di notte. Sono le sette del mattino quando già con passi diversi ci sfilacciamo dall’altra parte della diga; casinisti e chiassosi rompevamo lo scrigno silenzioso della Val Charino, era come se stessimo approcciando una passeggiata per portare il cane a fare il giro fuori di casa ma forse ognuno cercava con la confusione di demonizzare la prospettiva di una faticosa giornata che era tutta davanti a noi. Ora mischiate alcuni elementi: l’aria pungente che ci ha fatto stringere nelle prime felpe della stagione, il passo accelerato che era una conseguenza naturale per far sparire il prima possibile la fastidiosa sensazione di freddo, l’inedita ma affiata coppia Filippo e Maurizio, i gemelli non fratelli li definirei, tanto è la loro somiglianza nell’aspetto e nell’andatura a passo lungo e disteso ed il gioco è fatto; in meno di un’ora, dopo una bella rincorsa siamo già alla Masseria Cappelli, tre chilometri e mezzo dopo la diga, con buona pace di chi pensava ad una piacevole passeggiata di salute. Da citare per chi volesse attendere il prossimo anno per cimentarsi in questo percorso, che nel frattempo, dopo diversi anni di attesa, il tratto franato che ha ostruito il passaggio lungo la carrareccia della Val Chiarino sta per essere ripristinato; per la prossima Primavera, ci è stato detto, l’apertura definitiva. La luce del giorno all’interno della valle stenta ad entrare, le macchine fotografiche continuano ad abusare del flash; il Corvo, ormai costante presenza di sfondo, la davanti a noi, sempre presente sul sentiero è una piramide scura che si scaglia verso il cielo ormai chiaro di un’alba fattasi giorno. Lo spigolo che sappiamo dover salire è un infinito, ripido, piano inclinato che induce qualche timore. I due battistrada li abbiamo definitivamente persi, il resto del gruppo è leggermente sfilacciato; ancora mezz’ora ed usciamo dal bosco, la valle si allarga, diventa luminosa; in fondo una colonna di fumo segna la presenza del rifugio Fioretti ancora invisibile nella conca della piana del Castrato. Non c’è bisogno di raggiungerlo, la cresta del nostro monte inizia li dietro, dietro il bosco, dietro l’area attrezzata per le soste, la stessa che usiamo per una prima pausa. Basta conquistare uno dei tavoli dell’area, alleggerire gli zaini di ogni ben di Dio ed allestire una sorta di tavolata culinaria per radunare anche i fuggiaschi. Una sosta di pochi minuti prima di dare inizio alla vera escursione; in sei chilometri avevamo superato solo quattrocento metri di dislivello; davanti a noi c’era un salto secco di milleduecentometri stretti in soli due chilometri e mezzo. Come dire che l’escursione vera iniziava in quel momento. Saltiamo il fosso che come in un castello protegge le pendici della montagna e iniziamo la salita trasversale in cerca della linea di cresta; come alla diga il gruppo si allunga, davanti la coppia Filippo-Maurizio sparisce mangiandosi metri e metri di salita, sembrano alieni tanto è implacabile e senza sosta la loro salita; dietro distanziati con ritmo diverso tutti gli altri. Le andature si fanno diverse con l’aumentare dell’altezza; un bosco rado ed erba alta impediscono grossi allunghi. E’ su questo versante, su questo scosceso versante che veniamo sorpresi dalla fuga di un grosso cinghiale; spaventato forse da chi era avanti, scuote la montagna con una fuga verticale verso il basso. E’ impressionante l’agilità di un simile bestione lungo qual ripido pendio; ci passa in mezzo e non ci da nemmeno il tempo di realizzare: solo un gran frusciare di arbusti e la montagna che trema sotto le sue lunghe falcate e sotto il suo peso; è già sparito in fondo al pendio. Riprendiamo a salire, il fianco della montagna si fa sempre più irto ormai siamo proprio sotto la prima spalla, sulla cresta e tutto sfugge, è verticale; erba, poche rocce, gli appigli che sono minimi e tutto sembra in bilico, il fianco che scende ripido per centinaia di metri, non pensi che in quel cuscino erboso una scivolata potrebbe non avere fine e ti concentri, cerchi se possibile, di accelerare il passo per uscire da quella trappola bagnata e per questo sdrucciolevole. Poi le prime rocce, il pendio si appoggia, guadagniamo la spalla, un tratto, piccolo, minimo ma in piano, da dove ci si può concentrare sul panorama ormai allargato fino alle Solagne; il Fioretti , laggiù, è una casina minima minima, quel filo di fumo che esce dal suo comignolo è impercettibile, prima era una colonna. Siamo saliti velocissimi. La maggior parte del gruppo era già su secondo tratto del pendio, più largo e meno ripido ma molto più su, più veloci di noi; io ero rimasto con Mauro, Trechiodi ai più, e con Annamaria; indietro, ancora alle prese con la ripida trappola della cresta sotto la prima spalla Tommaso e Fernando. La salita è estenuante, il pendio sopra sembra non avere mai fine, puntiamo le rocce lassù, su una seconda spalla della montagna, per darci una meta; procediamo per passaggi successivi certi che se guardassimo le creste in cima ci scoraggeremmo non poco. Sopra di noi sono più veloci, si allontanano, diventano puntini ormai alle prese con le creste quando raggiungiamo la seconda spalla rocciosa. Siamo saliti così tanto che il panorama verso nord è diventato immenso, da non riuscire a contenerlo con una sola occhiata. Sembra di abbracciare il mondo intero fino all’orizzonte, da lì in poi il lago di Campotosto sarà la presenza catalizzatrice della giornata; il suo azzurro è pari a quello del cielo, a quello del mare più bello; davanti, verso ovest, tutta la cresta che dal Camarda fino al San Franco fa da bacino di contenimento ad un mare di boschi fitti, gli stessi che avevamo attraversato la mattina presto. Sullo sfondo, a nord, il turchese del lago e più ad est la catena della Laga, la valle delle Cento Fonti, la costa delle Troie così evidenti come se fossero a pochi passi. E finalmente, ad illuminare tutta questa meraviglia c’è un sole alto ma ancora debole che dona al paesaggio un connotato autunnale. Non ci va di accelerare anche se i compagni lassù ormai non si vedono più; Annamaria, che temeva le difficoltà dell’escursione consuma il creato a forza di meravigliarsi di quanto sia bello tutto, sul suo volto è stampato un sorriso interminabile, non sente più nemmeno la stanchezza della salita. Anche Tommaso e Fernando sotto sono piccoli puntini, in questo mare verticale ed in questa vastità di orizzonti le distanze si moltiplicano o forse sono le dimensioni che si perdono. A tratti, ora più, ora meno ripidi, superiamo gli ultimi tratti erbosi, prendiamo a percorrere la cresta rocciosa, più invitante, più divertente, anche più semplice da salire; e si che da lontano sembrava dover preoccupare non poco. Uno spigolo ripido, roccioso sopra di noi sembrava essere il preludio alla cima ovest, ci sembravano un centinaio i metri da dover salire, ma l’altimetro non consolidava le speranze; altro non c’era da fare che andare a vedere cosa ci fosse la sopra, dopo quella che sembrava essere una cima; lentamente però, perché sempre dietro le nostre spalle il panorama che continuava ad allargarsi con quel suo occhio azzurro li nel mezzo del tutto, ci richiamava per stupirci ancora, e ancora e ancora una volta. E sopra c’era ancora altro, molto, si appoggiava decisamente tanto da diventare ormai una leggerissima pendenza, una cresta larga e facile, al sole, ma senza la nostra meta, la vetta secondaria del Corvo era ancora al di là, non lontana di certo ma non ancora a vista. Ci fermiamo, con Mauro e Annamaria decidiamo di aspettare Tommaso e Fernando che lentamente ci raggiungono; il Corvo può aspettare, come i nostri amici possono aspettare. Ormai la sensazione è quella di aver dominato la montagna, è quella che sia arrivato il momento per mettere alle spalle la fatica della salita e godersi il mondo da lassù. Riprendiamo lentamente fino a toccare il culmine della cresta di quel versante e, davanti a noi poche centinaia di metri, i nostri che ci aspettano; sono sulla vetta occidentale, la loro frenesia ed un ometto poco dignitoso per i 2533 metri di altezza ci accolgono pochi minuti dopo. Mancano Filippo e Maurizio però, sono già avanti, hanno abbozzato un tentativo di raggiungere il Mozzone, fallito sulle ghiaie del Crivellaro. Dalla vetta secondaria il panorama si allunga verso sud, il Mozzone è lì sotto, importante vetta ma bassa e piccola al cospetto della mole del Corvo, quasi ad abituare l’occhio di chi viene dalle colline alle immensità della montagna madre. La cresta sinuosa, larga e facile si abbassa e si rialza fino alla vetta principale della montagna, facile da raggiungere; dietro si alzano le grandi cime del Gran Sasso, il Corno Grande e Piccolo si confondono nelle linee familiari e vicino, vicinissimo l’Intermesoli. Sostiamo poco sulla vetta secondaria, i nostri amici fremono per ripartire, è tanto che ci attendono. E’ niente salire alla vetta principale del Corvo; lungo la dorsale che unisce le due vette; la valle del Crivellaro, verso Est, si pone in evidenza, si fa guardare in tutta la sua dura bellezza. Ci attira, ci chiama e diventa, un progetto, consolidatosi in pochi istanti, per la futura via di accesso alla conquista del Mozzone. Discutere del progetto da rimandare alla prossima Primavera, forse alla prossima Estate distoglie l’attenzione dagli ultimi passi e quando ce ne rendiamo conto la cresta è finita, vediamo spuntare la croce di vetta dalla rotondità sassosa del profilo terminale della montagna. Avevamo battuto il Corvo, la montagna, avevamo coronato e vinto il nostro sogno, l’isolato ed inaccessibile Corvo aveva ceduto il passo al nostro entusiasmo. Dal punto più alto il mondo ci ruotava attorno; 360° gradi di viste mozzafiato facevano girare la testa, stordivano, confondevano. Altissimi sulle “colline” del Venaquaro e del Falasca, alti sul Camarda e tutte le Malecoste, alla pari con la cresta dell’Intermesoli, solo dietro sua maestà il Corno Grande svettava e si imponeva in altezza. A nord la Laga e il lago sempre presente dietro la linea di cresta. Viene issata la bandiera del gruppo sulla croce di vetta e si fa bella stesa dal leggero vento che spira da occidente; è una festa ed una gara farsi fotografare su quella pila di rocce che sostengono la croce. Ricordo lo stupore di Giacomo che fiero si compiace di essere per la prima volta così in alto e subito dopo compie una specie di dichiarazione puntando la ovest del Gran Sasso promettendo a se stesso che presto ci sarebbe salito, ricordo il suo sorriso, il volto di un uomo vissuto e l’espressione raggiante di un bambino; rivivo la meraviglia di Annamaria nel sorprendersi di tanto bello intorno, risento il vocio e la goliardia generale di tutti, felici di esserci e felici di esserci insieme. Le foto si moltiplicano, tutti fotografano tutto, ognuno si prende il suo angolo della grande vetta per stupirsi nell’intimo, di quanto questa montagna, così attesa, possa restituire tanta soddisfazione. La micidiale pettata dello spigolo, le cinque ore e mezza di estenuante marcia di avvicinamento non si fanno più sentire, ormai è festa, solo una incontenibile, pacata frenesia che coglie tutti di slancio e la foto rituale di gruppo, tutti insieme sotto la croce, le braccia in alto, suggella il trionfo di un gruppo in quella che per tutti è diventata la “giornata perfetta”. Il tempo di riprendersi dall’emozione della conquista, di far diventare familiare anche questa cima e il gruppo si divide: Filippo, Maurizio ed Augusto si gettano alla conquista della cime del Venaquaro e del Falasca; Luca ed il padre, anticipano il ritorno per agevolare il rientro a Roma e riprendono la discesa verso la sella del Corvo; gli altri si godono la piacevole solitudine della vetta. Circa un’ora sostiamo e muoviamo gli ormeggi solamente quando le prime nuvole, onnipresenti su queste montagne, ci negano il tepore del sole ed amplificano la sensazione di freddo dell’abbraccio del vento. Riprendiamo a scendere anche noi, verso la sella del Monte Corvo, per quella che viene definita la via normale; prima, la cresta ancora larga ed agevole, si abbassa gradualmente verso sud, si affaccia come un balcone privilegiato verso il cuore del gruppo del Gran Sasso, poi con ripidi e sassosi tornanti si abbassa sul versante ovest a perdere quota; lungo il percorso, nei tratti esposti verso est gli affacci sono di tanto in tanto dirompenti verso il vuoto della Valle del Venaquaro e regalano a questa discesa un sapore dal connotato alpinistico; frequenti passaggi costringono ad usare le mani a fanno divertente questo tratto di discesa. Tommaso, la solita “cornacchia” del gruppo non fa fatica a trovarsi alcuni speroni, si esalta nel perdersi in bilico tra vuoto ed infinità dei panorami lontani, è come se non fosse più con noi in quei momenti, si isola, immagino si emozioni. Una innocua scivolata di Marco fa salire per un attimo l’adrenalina ma l’unico a non preoccuparsi e proprio lui. Un salto, una roccia, un passaggio stretto, una cengia in diagonale e siamo in basso, sul traverso che conduce diritti alla sella del Corvo. La Cima del Venaquaro ritorna ad essere “cima”, ci sovrasta ormai ma è nulla nella sua erbosa gobba in confronto alla mole rocciosa del Corvo. Non raggiungiamo la sella, tagliamo il pendio verso overt scivolando sul ghiaione scoperto andando in contro ai tre che a loro volta erano di ritorno dal Falasca. Il gruppo è di nuovo unito, a parte Luca e Giacomo che ormai saranno quasi giunti alle auto. Sostiamo sul ciglio del sentiero quasi a voler rivivere già i fasti della giornata, sapevamo che ormai avevamo davanti solo il ritorno, lungo ed anche monotono al cospetto delle aspettative della mattina. Riprendiamo a scendere, sfioriamo punta delle Solagne, ci facciamo avvolgere e sovrastare dalla maestosità delle coste del Camarda, mentre ad est i fianchi striati e verticali del Corvo ci fanno apparire ancora più impresa quanto fatto finora. L’ombra si insinua nella valle, taglia in due il paesaggio, lo affetta e rende ancora più abbagliante la pietra del Corvo; mi rendo conto, certo non per la prima volta, ma ora con una emozione travolgente di quanto sia bella ed unica l’alta valle del Chiarino. Le foto che portiamo a casa gli renderanno effettiva giustizia. In ordine sparso come è nostro solito guadagniamo la piana dello stazzo delle Solagne, mucche al pascolo ci degnano appena al nostro passaggio quando prendiamo la carrareccia che ci accompagnerà da li in poi fino alla diga e quindi alle auto. Qualche tornante per guadagnare la valle e raggiungiamo il rifugio Fioretti, deserto, dove le panche in legno dell’esterno sembrano comode come poltrone, dove la birra che ci facciamo portare sembra nettare venuto dal cielo, dove la frutta secca che d’incanto esce dallo zaino di Annamaria ci fa rimpiangere la poca frequenza dell’elemento femminile nelle nostre escursioni. Non badiamo più al tempo che passa, il sole caldo che si andava abbassando, la luce ormai più tenue favorivano il riposo dei “guerrieri” e solo dopo molto ci siamo accorti che mancavano i soliti Filippo e Maurizio. Sono state furie per tutta la giornata, le loro gambe lunghe quando si mettono in moto difficilmente si arrestano, diventano un volano che li aiuta ma lo li fa fermare, nemmeno un rifugio che promette finalmente un po’ di riposo gratificante li ha tentati; che grandi acquisti per Aria Sottile questi due implacabili camminatori. Non ci veniva in mente che davanti avevamo ancora più di sei chilometri da superare, ormai ci eravamo lasciati andare e le bottiglie vuote di birra continuavano ad ammucchiarsi sul tavolaccio. Il gestore ci raccontava che stava preparando una cena per una decina di persone che avrebbero passato la notte nel rifugio, sono certo che il moto di invidia che ho provato per quelle persone sia stato condiviso da ciascuno di noi. Quel luogo era idilliaco, i colori, la calma irreale, il silenzio potevano solo sfociare in nostalgia dilagante, era arrivato il momento di incamminarci per non rovinare la giornata. Un saluto cordiale al gestore e riprendiamo il cammino con in fronte lo spigolo del Corvo che la mattina avevamo dominato. Gli sguardi di tutti, ne sono certo, avranno seguito il profilo in ogni metro di quella interminabile linea inclinata; l’orgoglio di avercela fatta era quasi rumoroso, palpabile, evidente negli occhi di ognuno. Il bosco ci inghiotte, il sole basso sparisce a tratti dietro i profili della cresta del Morrone, ogni tanto filtra tra gli alberi e dona alle chiome un caldo profilo autunnale. E’ mesto il ritorno, di più non si poteva fare di fronte ai 1550 metri di dislivello superati, di fonte ai quasi 23 chilometri strappati alle gambe; tutti ne eravamo coscienti eppure un velo di nostalgia affiorava nei toni delle nostre parole, nei profili dei discorsi che erano già concentrati sui ricordi. E’ lento o forse solo lungo il ritorno, la stanchezza si fa sentire, ma ciò che di più affiora è la consapevolezza di aver vissuto una esperienza unica, una giornata da ricordare, una giornata perfetta. Alle 17 e un quarto siamo sulla diga, sono passate più di dieci ore dalla buia partenza della mattina, ci attendono Filippo e Maurizio, la striscia di asfalto della provinciale per Teramo è riuscita a fermarli.